sentenza 26 luglio 2002

Cassazione Italiana .(sentenza  26 luglio 2002 n.11046/2002) Giudizio di equa riparazione - legge Pinto n-89/2001- Eccessiva durata del procedimento esecutivo di sfratto . Sussistenza del diritto all’equa riparazione (decisione conforme  alla consolidata giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo)

   
Corte di cassazione - Sezione prima civile - Sentenza 18 giugno-26 luglio 2002 n. 11046   (Presidente Saggio; Relatore Criscuolo; PM – Raimondi - conforme ; Ricorrente Xxxxxxxx;
Contro ricorrente e ricorrente incidentale Ministero della Giustizia e altro)

Svolgimento del processo
xxxxxxxxxxx xxxxxxxx - proprietaria di un immobile destinato ad abitazione, situato in Roma al Lungotevere Flaminio n. 36, int. 7, condotto in locazione da Anna Maria Wwwww in forza di contratto in data 19 gennaio 1977 - con raccomandata del 26 giugno 1984 comunicò alla conduttrice formale disdetta a decorrere dalla scadenza contrattuale del 14 gennaio 1985.
Poiché in quella data l'immobile non fu liberato, con atto notificato il 19 aprile 1985 la Xxxxxxxx intimò alla Wwwww sfratto per finita locazione e contestualmente la convenne davanti al Pretore di Roma per la convalida.
Il giudice adito, con provvedimento del 18 giugno 1985, convalidò lo sfratto fissando per il rilascio la data del 31 maggio 1986.
Il precetto fu notificato l'8 maggio 1986 e, permanendo la locataria nell'immobile, il 2 agosto 1986 la Xxxxxxxx notificò il preavviso di sfratto. Al primo accesso, tuttavia, la Wwwww si oppose al rilascio, che pertanto non fu eseguito. L'ufficiale giudiziario, quindi, fece luogo negli anni a numerosi accessi, rimasti senza esito per mancata assistenza della forza pubblica (il ricorso ne enumera 60 tra il 6 agosto 1986 e il 14 ottobre 1998: v. pag. 3). Ciò a seguito di varie disposizioni legislative che stabilirono regole per la sospensione e la "graduazione" nella concessione della forza pubblica allo scopo di eseguire i provvedimenti di sfratto.
In particolare, con D.L. 29 ottobre 1986 n. 708, conv. in legge 23 dicembre 1986 n. 899, l'esecuzione dei provvedimenti di rilascio fu sospesa fino al 31 marzo 1987 e la determinazione dei criteri circa l'impiego della forza pubblica fu affidata al prefetto, previo parere di una commissione consultiva.
Con D.L. 8 febbraio 1988 n. 26, conv. in legge 8 aprile 1988 n. 108, e poi con D.L. 30 dicembre 1988 n. 551, conv. in legge 21 febbraio 1989 n. 61, le esecuzioni furono sospese fino al 30 aprile 1989. L'art. 3, comma 5, di detta legge stabilì che la forza pubblica - tranne alcune eccezioni - poteva essere concessa entro un periodo non superiore a 48 mesi, con decorrenza non successiva al primo gennaio 1990.
La Xxxxxxxx, ritenendo di trovarsi nelle condizioni per godere del previsto diritto, di priorità, presentò apposita istanza, rimasta però senza esito (come si afferma in ricorso).
Il sistema di sospensione-graduazione, con una serie di provvedimenti legislativi, fu esteso dal 31 dicembre 1993 al 31 gennaio 1998.
Con legge 9 dicembre 1998 n. 431 (art. 6) le esecuzioni dei provvedimenti di rilascio furono ancora sospese per 180 giorni, cioè fino al 29 giugno 1999.
In base a tale legge, fallite le trattative per la stipula di un nuovo contratto, la conduttrice presentò istanza perché fosse nuovamente fissato il giorno dell'esecuzione. La Xxxxxxxx si oppose ma il giudice dell'esecuzione, con decreto del 30 settembre 1999, fissò per il rilascio la data del 31 maggio 2000.
Per effetto del D.L. n. 32 del 2000, conv. in legge 20 aprile 2000 n. 97, l'esecuzione fu differita al 30 settembre 2000. Un ulteriore accesso fissato per il 18 ottobre 2000 rimase infruttuoso per malattia dell'ufficiale giudiziario incaricato ed il successivo accesso del 7 novembre 2000 rimase del pari senza esito per mancata assistenza della forza pubblica.
Infine, in data 24 novembre 2000 - con l'ausilio della forza pubblica, del medico nominato dal giudice e di un fabbro - la proprietaria fu immessa nel possesso del proprio appartamento.
Con ricorso depositato il 23 maggio 2001 Maria Xxxxxxxx si rivolse alla Corte d'appello di Perugia, ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, affinché si accertasse la violazione dell'art. 6, paragrafo primo, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole per la durata della procedura esecutiva nei confronti della Wwwww. La ricorrente chiese quindi che la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della giustizia, se del caso anche in solido, fossero condannati al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla medesima ricorrente per la reiterata negazione dell'assistenza della forza pubblica nell'esecuzione dello sfratto e per la conseguente abnorme durata della procedura esecutiva. Le amministrazioni convenute si costituirono per resistere alla domanda. La Corte di appello di Perugia, con decreto depositato il 16 luglio 2001, rigettò il ricorso e condannò la Xxxxxxxx al pagamento delle spese giudiziali, considerando:
che la stessa ricorrente ascriveva l'abnorme lunghezza della procedura soltanto ai numerosi consecutivi interventi del legislatore che avevano introdotto una surrettizia proroga degli sfratti, stabilendo regole per la sospensione della concessione della forza pubblica (indispensabile ausilio all'esecuzione forzata), che veniva demandata al prefetto;
che il caso di specie non rientrava nella previsione dell'art. 2 della legge n. 89 del 2001, "limitata alle inadempienze dello Stato quale somministratore di giurisdizione", dal cui ambito certamente esulava il potere legislativo, autonomo e sovrano nelle sue determinazioni e del quale il prefetto - nella vicenda esposta - aveva costituito il tramite esecutivo e non già un ausiliario dell'A.G.O., di cui all'art. 2, 2° comma, della legge n. 89 del 2001;
che il ricorso doveva trovare la sua sede naturale presso la Corte di Strasburgo.
Contro il suddetto provvedimento Maria Xxxxxxxx ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi illustrati con memoria.
La Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della giustizia hanno resistito con controricorso ed hanno proposto ricorso incidentale condizionato sulla base di due motivi, depositando quindi memoria ex art. 378 cod. proc. civile.
Infine la Xxxxxxxx ha proposto controricorso per resistere al detto ricorso incidentale.

Motivi della decisione
1. Il ricorso principale e il ricorso incidentale, proposti contro la medesima pronunzia, devono essere riuniti ai sensi dell'art. 335 cod. proc. civile.
2. Deve essere trattata con priorità, per ragioni di ordine logico, la questione sollevata dalle amministrazioni resistenti con la memoria in data 7 giugno 2002, secondo cui il ricorso per cassazione previsto dall'art. 3, comma sesto, della legge n. 89 del 2001 andrebbe ricondotto nell'ambito dell'art. 111 Cost. e non dell'art. 360 cod. proc. civ., con conseguente inammissibilità dell'impugnazione nella parte in cui articola censure diverse dalla violazione di legge.
Ancorché sollevata in memoria, la questione concerne un profilo rilevabile anche d'ufficio. Essa, pertanto, deve essere esaminata ma si rivela priva di fondamento.
L'art. 3 della legge n. 89 del 2001, recante disposizioni sul procedimento diretto ad azionare il diritto all'equa riparazione di cui all'art. 2, dopo aver dettato le modalità per la proposizione della domanda, modella il procedimento stesso su quello previsto in via generale dagli artt. 737 e ss. cod. proc. civ. e stabilisce che, all'esito di esso, la Corte di merito pronunzia con decreto "impugnabile per cassazione".
L'adozione del modello camerale per il procedimento de quo è determinata dal carattere di celerità che ispira quel modello, ritenuto dal legislatore più agile e rapido rispetto al processo di cognizione ordinaria. La scelta in tal senso, dunque, è stata operata come misura acceleratoria, perseguita mediante una procedura definibile in tempi brevi. Ma il provvedimento che la conclude è senza dubbio definitivo (non essendo previsti altri rimedi, a parte il ricorso per cassazione) ed ha natura decisoria, essendo idoneo ad incidere con efficacia di giudicato sull'interesse della parte all'equa riparazione, avente consistenza di diritto soggettivo e tale espressamente qualificato dalla legge (art. 2, primo comma, legge n. 89 del 2001). Pertanto esso, pur in assenza di previsione normativa, sarebbe stato senz'altro suscettibile di ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 111 della Costituzione, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte (tra le più recenti, Cass., 21 maggio 2001, n. 6919; 21 febbraio 2001, n. 2517; 14 febbraio 2001, n. 2099). Ne deriva che, se si interpretasse l'art. 3, comma sesto, della legge n. 89 del 2001 come riferito al detto ricorso straordinario, il dettato normativo in parte qua sarebbe pleonastico, essendo tale mezzo d'impugnazione già esperibile in relazione alla natura dell'atto. Invece l'espressa previsione della norma, che consente il ricorso per cassazione avverso il decreto della Corte territoriale senza alcuna limitazione in ordine ai motivi proponibili, impone di ritenere che il legislatore abbia inteso riferirsi al ricorso ordinario per cassazione (ex art. 360 cod. proc. civ.), in ragione del contenuto sostanziale di sentenza che al provvedimento in questione va riconosciuto, al di là della forma adottata.
Di qui l'infondatezza della tesi propugnata dalle amministrazioni resistenti.
Sempre per ragioni di ordine logico va ora esaminato il primo motivo del ricorso incidentale delle amministrazioni resistenti.
Ancorché proposto in forma condizionata all'accoglimento del ricorso principale, esso concerne una questione preliminare che, se accolta, comporterebbe l'assorbimento del detto ricorso principale. E poiché, come si dirà più avanti, questo è fondato, deve farsi luogo in via prioritaria all'esame della questione preliminare.
Col primo motivo del ricorso incidentale il Ministero della giustizia e la Presidenza del Consiglio denunziano violazione dell'art. 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89, e dell'art. 2043 cod. civ., in relazione all'art. 360, n. 3, cod. proc. civile.
Sostengono che i giudici del merito avrebbero dovuto dichiarare inammissibile, o comunque rigettare, il ricorso introduttivo perché la legge n. 89 del 2001 non sarebbe applicabile al procedimento di esecuzione forzata di un provvedimento di rilascio d'immobile adibito ad uso di abitazione.
In primo luogo, andrebbe contestata l'applicabilità della detta legge al procedimento di esecuzione in generale che - essendo finalizzato non già alla formazione di un giudicato bensì alla soddisfazione coattiva di un diritto - sarebbe condizionato da circostanze tali da non consentire di configurare in astratto una durata ragionevole, come avviene per il processo di cognizione, o comunque d'imputare all'Amministrazione della giustizia la sua eventuale durata irragionevole.
In secondo luogo, il rilascio coattivo d'immobili adibiti ad uso abitativo sarebbe soggetto ad una disciplina speciale in cui sarebbe previsto che la concessione della forza pubblica sia sottratta alla disponibilità dell'organo giurisdizionale e rimessa alla valutazione discrezionale di altri organi amministrativi.
Pertanto, il tempo occorrente per ottenere la forza pubblica non potrebbe essere sindacato ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo, in quanto non costituirebbe un ritardo della giustizia sia in senso soggettivo, sia in senso oggettivo, essendo giustificato per legge da ragioni di ordine pubblico.
Questa tesi non può essere condivisa.
Ai sensi dell'art. 6, paragrafo primo, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata dal Presidente della Repubblica italiana in seguito ad autorizzazione conferitagli dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, entrata in vigore per l'Italia il 26 ottobre 1955 (d'ora in avanti, Convenzione), ogni persona ha diritto alla trattazione della sua causa equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole, davanti ad un tribunale indipendente ed imparziale costituito per legge, che deciderà sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa in materia penale che gli venga rivolta.
L'art. 13 stabilisce che ogni persona, i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un'istanza nazionale. E l'art. 35, paragrafo 1, enuncia la regola che la Corte europea dei diritti dell'uomo (C.E.D.U.) non può essere adita se non dopo l'esaurimento delle vie di ricorso interne.
L'art. 41, infine, stabilisce che, se la C.E.D.U. dichiara che vi è stata violazione della Convenzione, e se il diritto interno della parte contraente non permette che in modo incompleto di eliminare le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un'equa soddisfazione ("une satisfaction equitable") alla parte lesa.
È così chiarito che il meccanismo di tutela convenzionale riveste un carattere sussidiario rispetto ai sistemi nazionali di garanzia dei diritti fondamentali. Spetta in primo luogo agli Stati contraenti prevedere, nei rispettivi diritti interni, meccanismi di ricorso effettivo (cioè concreto ed efficace), che consentano di avvalersi dei diritti e delle libertà della Convenzione.
In questo quadro va interpretata la legge 24 marzo 2001, n. 89, che ha introdotto nell'ordinamento italiano l'istituto dell'equa riparazione a favore di chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione sopra indicata, "sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'articolo 6, paragrafo 1" della Convenzione medesima.
Tale normativa, come anche le amministrazioni resistenti affermano (memoria illustrativa, pag. 9), persegue i seguenti obiettivi: a) dare concreta attuazione all'impegno assunto con la Convenzione; b) approntare una riparazione in caso di mancato rispetto dei termini ragionevoli del processo; c) apprestare un'efficace tutela dell'ordinamento giuridico italiano, perché spetta in primo luogo ai singoli Stati garantire i diritti e le libertà sottoscritti con la Convenzione. D'altro canto il dovere legale di assicurare la ragionevole durata del processo è oggi, nell'ordinamento italiano, espresso in Costituzione (art. 111, comma 2°, nel testo novellato dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2).
Ai sensi dell'art. 2, comma secondo, della legge n. 89 del 2001 spetta al giudice italiano accertare la violazione della Convenzione "sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole", restando ovviamente soggetto ai principi delle leggi italiane. Tra le quali, però, c'è per l'appunto la legge ora citata che richiama non un'astratta nozione di termine ragionevole o di ragionevole durata, bensì il "mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione". Ciò significa che, se i principi elaborati dalla Corte di Strasburgo non possono avere carattere direttamente vincolante per il giudice interno, essi tuttavia vanno tenuti ben presenti ai fini dell'interpretazione della legge n. 89 del 2001, proprio in forza del rinvio da tale legge operato all'art. 6, paragrafo 1, della Convenzione. Invero, un'operazione ermeneutica che si risolvesse in un'interpretazione elusiva dei principi affermati in sede europea non soltanto si porrebbe in contrasto con le finalità perseguite dalla legge n. 89 del 2001 (e, segnatamente, con l'esigenza di dare concreta attuazione all'impegno assunto con la Convenzione), ma renderebbe vano lo scopo pratico di tale legge, costituito dall'introduzione di un meccanismo riparatorio interno, idoneo a porre rimedio alle conseguenze delle violazioni contemplate dalla legge medesima ed ai riflessi che quelle violazioni hanno avuto in sede europea.
In altre parole, se può convenirsi con la tesi secondo cui la legge n. 89 del 2001 non ha determinato il "recepimento in blocco" nel nostro ordinamento della giurisprudenza europea, si deve anche affermare che i principi elaborati da quella giurisprudenza vanno considerati nell'interpretazione della citata legge, la quale, per assicurare concreta attuazione agli impegni assunti con la Convenzione, va interpretata in modo da garantire una tutela effettiva sia del termine ragionevole di durata dei procedimenti (secondo la nozione di questi elaborata dalla Corte di Strasburgo), sia del diritto all'equa riparazione in caso di sua violazione.
Se così è, l'assunto propugnato dalle resistenti, secondo cui la legge n. 89/2001 non si applicherebbe al procedimento esecutivo, deve essere respinto, dovendosi invece affermare che anche quel procedimento rientra nell'ambito applicativo della legge medesima.
Scopo della tutela giurisdizionale e del processo è rendere concreto il comando astratto di legge, "dare per quanto è possibile praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire" alla stregua della legge sostanziale (come posto in luce in dottrina). Pertanto un sistema di tutela giurisdizionale deve provvedere non soltanto all'accertamento di chi ha ragione e di chi ha torto, ma anche alla soddisfazione concreta dei diritti. A tale risultato sono finalizzati i processi di esecuzione forzata (artt. 474 e ss. cod. proc. civ. e, quanto all'esecuzione per consegna o rilascio, artt. 605 e ss. detto codice), che anch'essi appartengono alla giurisdizione e sono condotti sotto la direzione o la vigilanza del giudice a garanzia della legittimità del loro svolgimento. E in detta prospettiva, proprio in tema di esecuzione degli sfratti, questa Corte ha già chiarito che la concessione della forza pubblica da parte del prefetto, su richiesta dell'ufficiale giudiziario, va intesa come di ausilio al provvedimento esecutivo dell'autorità giudiziaria ordinaria, vale a dire di prestazione di mezzi per l'attuazione in concreto del diritto sancito dal titolo esecutivo, allo scopo di dare attuazione alla funzione giurisdizionale (Cass., sez. un., 26 giugno 1996, n. 5894), restando così ribadito il collegamento tra procedimento esecutivo e momento realizzativo del diritto.
Il solo processo di cognizione, in difetto della successiva spontanea cooperazione dell'obbligato, sarebbe insufficiente a garantire al titolare del diritto il godimento del bene o dell'utilità prevista dalla legge sostanziale.
In tal senso, del resto, anche la giurisprudenza europea si è già espressa, affermando che, ai fini della determinazione della ragionevole durata, si deve accertare quando il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione (Di Pede c. Italia, 26 settembre 1996; Scollo c. Italia, 28 settembre 1995).
I contrari argomenti addotti dalle resistenti non sono persuasivi.
Infatti:
a) che nel processo esecutivo il debitore abbia la possibilità di sottrarsi all'esecuzione forzata e quindi di prolungare la durata del processo, o addirittura d'impedire che esso vada a buon fine, è circostanza inesatta nei termini generali in cui è proposta, perché il processo esecutivo è diretto appunto a vincere le resistenze del debitore. Il comportamento di questo, quindi, se è valutabile ai sensi dell'art. 2 (comma secondo) L. n. 89/2001, non può certo assumere rilievo fino ad escludere l'applicabilità di tale legge al processo esecutivo, esclusione che renderebbe in parte consistente non effettiva la tutela prevista dalla legge medesima;
b) che il rilascio coattivo d'immobili adibiti ad uso abitativo sia soggetto ad una disciplina speciale, che lo renderebbe non sindacabile ai sensi dell'art. 6, par. 1, della Convenzione, è questione che sarà trattata nell'esame del ricorso principale, perché non riguarda il processo esecutivo in sé, bensì i limiti delle violazioni accertabili nel quadro delle violazioni contemplate dall'art. 2 della legge n. 89;
c) il richiamo all'art. 4 di tale legge non è pertinente. È vero che la norma ora citata stabilisce che la domanda di riparazione va proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dal momento in cui la decisione, che conclude il procedimento, è divenuta definitiva. Ma il concetto di "decisione definitiva" (espressione non a caso analoga a quella di "decision interne definitive", che si trova nell'art. 35, paragrafo 1, della Convenzione) non coincide con quello di sentenza passata in giudicato (ben noto al nostro ordinamento, sicché il legislatore l'avrebbe adottato se ad esso avesse inteso riferirsi), bensì indica il momento in cui il diritto azionato ha trovato effettiva realizzazione. E tale momento, nell'esecuzione per il rilascio di un immobile, è quello della riconsegna del bene all'avente diritto, quando cioè la controversia rilevante ai fini della durata ragionevole del procedimento perviene a definizione.
Conclusivamente, alla stregua delle considerazioni che precedono, il primo motivo del ricorso incidentale deve essere respinto.
Con il primo mezzo di cassazione la ricorrente principale denunzia violazione e falsa applicazione dell'art. 2, comma 2°, della legge 24 marzo 2001, n. 89 in rel. all'art. 360, n. 3, cod. proc. civ. e all'art. 6, par. primo, della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, nonché violazione degli artt. 474, 475 e 513 cod. proc. civ. e delle disposizioni dei D.L. n. 551 del 1988 e n. 172 del 1997.
Richiamato il tenore dell'art. 2 della citata legge n. 89/2001, ella sostiene che, stante l'ampia formula adottata dal legislatore, il caso in esame rientrerebbe nell'ambito applicativo di detta norma, sia perché la legge de qua appresterebbe uno strumento per accertare la responsabilità dello Stato italiano in ordine alla violazione dell'art. 6, par. 1, della Convenzione, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole del processo, sia perché il prefetto andrebbe annoverato tra le altre autorità che concorrono, o comunque contribuiscono, alla definizione del procedimento esecutivo, il cui comportamento andrebbe valutato allo scopo di accertare la violazione della norma di diritto internazionale.
La ricorrente pone quindi l'accento sulle finalità perseguite dalla legge n. 89/2001, sul contesto nel quale essa fu approvata e sulle decisioni assunte dalla C.E.D.U., ed afferma che l'interpretazione della nuova normativa dovrebbe garantire l'effettività del rimedio previsto, assicurando che esso fornisca in concreto un'adeguata tutela, avuto riguardo alla natura sussidiaria che, in base alla Convenzione, il reclamo alla Corte europea riveste rispetto ai sistemi nazionali di protezione dei diritti umani (artt. 13 e 35, par. 1, della Convenzione).
La Xxxxxxxx rileva, poi, che, ai sensi degli artt. 474 e 475 cod. proc. civ., l'esecuzione forzata potrebbe aver luogo soltanto in virtù di un titolo esecutivo, alla cui attuazione dovrebbero concorrere gli organi previsti dalla legge, tra cui i prefetti, rientranti nella previsione normativa quali autorità che concorrono o collaborano all'esecuzione mediante i poteri loro conferiti in tema di graduazione degli sfratti e concessione della forza pubblica.
Richiamate la legislazione in materia e la sentenza della Corte costituzionale 24 luglio 1998, n. 321, la ricorrente sostiene che l'adesione ai suddetti orientamenti dovrebbe far concludere per la fondatezza della proposta impugnazione.
Con il secondo mezzo di cassazione la Xxxxxxxx censura il provvedimento impugnato nella parte in cui ha ritenuto che ella avrebbe addebitato l'abnorme lunghezza della procedura esclusivamente agli interventi legislativi. Afferma di avere insistito sui menzionati interventi perché essi, nel disporre le sospensioni, dettavano anche la disciplina dei poteri prefettizi, e pone in rilievo di aver criticato il comportamento inerte del prefetto di Roma che, nell'esercizio del potere di graduare gli sfratti decidendo sulla concessione della forza pubblica, non avrebbe posto in essere gli atti dovuti, nell'ambito delle "finestre" che la legislazione richiamata avrebbe aperto per consentire che alcuni sfratti, comunque, fossero eseguiti.
Sul punto la Corte territoriale avrebbe motivato in modo del tutto insufficiente, omettendo ogni riferimento alle specifiche doglianze formulate.
Le suddette censure, da esaminare congiuntamente perché tra loro connesse, sono fondate nei sensi in prosieguo indicati.
Richiamate le considerazioni svolte nel precedente punto tre, si deve in primo luogo osservare che l'art. 2 della legge n. 89 del 2001 (costituente il parametro normativo di riferimento) prevede non un diritto al risarcimento del danno bensì un diritto all'equa riparazione, in coerenza del resto con il disposto dell'art. 41 della Convenzione. Si tratta, cioè, di un diritto a contenuto indennitario e non risarcitorio, come si evince, già sul piano testuale, dai richiami all'equità e al limite delle risorse disponibili, dall'assenza di riferimenti all'elemento soggettivo della responsabilità, dall'adozione del termine "indennizzo" (art. 3, comma 7°, L. n. 89/2001).
Questo orientamento trova conferma, sul piano logico-sistematico, nel rilievo che la violazione della Convenzione sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole non richiede l'accertamento di un illecito secondo la nozione contemplata dall'art. 2043 cod. civile. È ben possibile che la durata irragionevole del procedimento sia imputabile a colpa di un soggetto individuato o individuabile (comportamento del giudice del procedimento e di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a contribuire alla sua definizione), ed a tal fine è previsto (art. 5 della legge) che il decreto di accoglimento della domanda sia comunicato, a cura della cancelleria, anche al procuratore generale della Corte dei conti ed ai titolari dell'azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati al procedimento. Ma nello schema normativo de quo il riconoscimento dell'equa riparazione non presuppone necessariamente la verifica dell'elemento soggettivo a carico di un agente, essendo invece ancorato all'accertamento di una violazione della Convenzione, cioè di un evento ex se lesivo del diritto della persona alla definizione del suo procedimento in una durata ragionevole.
In altre parole, quella avente ad oggetto l'equa riparazione per la non ragionevole durata del processo non si configura come obbligazione ex delicto, ma come obbligazione ex lege, riconducibile, in base all'art. 1173 cod. civ., ad ogni altro atto o fatto idoneo a costituire fonte di obbligazione in conformità dell'ordinamento giuridico.
A diversa conclusione non può condurre il rinvio, contenuto nell'art. 2 comma 3° della legge n. 89, all'art. 2056 cod. civ., perché tale rinvio rileva soltanto ai fini della determinazione del quantum della riparazione, ma non incide sulla natura indennitaria di questa.
Fatto costitutivo del diritto all'equa riparazione è il "mancato rispetto del termine ragionevole di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione". Il termine è riferito, dunque, in modo specifico a quello contemplato dall'art. 6, par. 1, della Convenzione, sicché detta norma, e il diritto vivente che intorno ad essa si è formato attraverso la giurisprudenza della Corte europea, necessariamente vanno considerati ai fini dell'interpretazione della legge n. 89 del 2001.
In questo quadro, dunque, deve essere letto l'art. 2, secondo comma, della legge n. 89 del 2001, alla stregua del quale il giudice, nell'accertare la violazione, considera la complessità del caso e, in relazione alla stessa, il comportamento delle parti e del giudice del procedimento, "nonché quello di ogni altra autorità chiamata a concorrervi o a comunque contribuire alla sua definizione".
Fermo il punto che il richiamo è al comportamento, cioè ad un dato oggettivo, si deve subito notare che già il dettato letterale della norma, nella sua ampia formulazione, non consente di attribuire ad essa il significato restrittivo identificato dalla Corte trentina, secondo la quale il legislatore avrebbe inteso riferirsi agli ausiliari del giudice o ad altre autorità amministrative.
Ma, al di là del dato testuale, non si può ignorare il contesto nel quale la legge n. 89 del 2001 è stata emanata. Questa è stata introdotta nell'ordinamento interno per dotare l'Italia di un rimedio contro la violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, secondo gli orientamenti emersi in sede europea (non altro significato potendosi attribuire all'univoco richiamo all'art. 6, par. 1, della Convenzione). Pertanto, un'interpretazione della norma che escludesse dal suo ambito applicativo tutte le violazioni "di sistema", cioè le violazioni conseguenti anche a scelte legislative che provochino una durata non ragionevole dei procedimenti (nel caso di specie, la stessa Corte di merito ipotizza gli estremi per un ricorso "presso l'Alta Corte di Strasburgo"), finirebbe non soltanto per porsi, a sua volta, in contrasto con la Convenzione, ma sarebbe altresì elusiva delle stesse finalità perseguite dal legislatore.
Non si tratta d'introdurre nel nostro ordinamento la responsabilità civile del legislatore, perché, come sopra si è notato, la legge n. 89 del 2001 non contempla una fattispecie d'illecito aquiliano bensì un'ipotesi di natura indennitaria. E neppure si tratta di mettere in discussione la soggezione del giudice alla legge, essendo ovvio che il giudice deve applicare in ogni caso la legge, ancorché ciò conduca a risultati non compatibili con la ragionevole durata del procedimento (salvo il potere di chiedere al giudice delle leggi lo scrutinio di costituzionalità, ai sensi dell'art. 111, comma secondo, Cost., nel testo novellato). Il giudice nazionale resta vincolato al quadro normativo del proprio ordinamento, che non può disapplicare né censurare. Ma proprio in ossequio a tali principi ha il dovere d'interpretare la legge n. 89 del 2001 (che è legge dello Stato) in base al senso "fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore" (art. 12, primo comma, disp. sulla legge in generale). E tale interpretazione, alla stregua dei precedenti rilievi, conduce ad affermare che, nell'accertare la durata del procedimento al fine di verificarne la ragionevolezza, il giudice debba considerare anche il ritardo conseguente alla (doverosa) applicazione di atti legislativi o, comunque, a contenuto normativo. Il detto accertamento, infatti, non è diretto a sindacare tali atti, e le scelte ad essi sottese (e men che mai a disapplicarli), bensì a controllare se la durata del singolo procedimento (come conformato in base a quegli atti) si riveli compatibile con i principi della legge n. 89 del 2001, segnatamente con il precetto di cui all'art. 2 di tale legge e, tramite questo, con il precetto di cui all'art. 6, par. 1, della Convenzione.
Il provvedimento impugnato, dunque, ha errato nell'affermare che dall'ambito applicativo della legge n. 89 del 2001 andasse esclusa l'incidenza sulla durata del procedimento riferibile ad atti normativi o applicativi di questi.
Esso, pertanto, in accoglimento del ricorso principale deve essere cassato (restando assorbita in tale pronuncia la doglianza relativa al comportamento asseritamente omissivo del prefetto, da verificare nella successiva fase di merito) e la causa va rinviata alla Corte di appello di Perugia - funzionalmente competente ex art. 3, comma 1°, L. n. 89 del 2001 - in diversa composizione, che procederà a nuovo esame della controversia, uniformandosi ai principi sopra enunciati, e provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.
Infatti, non ricorrono gli estremi per far luogo alla pronunzia nel merito richiesta dalla ricorrente (capi 7 e ss. del ricorso per cassazione), essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto non compatibili con la presente sede di legittimità (art. 384, primo comma, cod. proc. civ.).
5. Occorre ora procedere all'esame del secondo motivo del ricorso incidentale.
Con esso le resistenti, denunziando violazione dell'art. 3 (terzo comma) della legge n. 89 del 2001 in relazione all'art. 360 n. 3 cod. proc. civ., censurano il decreto impugnato nella parte in cui è stato reso anche nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sostengono che la Presidenza del Consiglio sarebbe estranea alla vicenda in esame, in quanto avrebbe una legittimazione residuale, circoscritta dal citato art. 3 agli "altri casi", diversi da quelli concernenti giudizi ordinari, militari o tributari. Secondo le resistenti la norma sarebbe da riferire ai giudizi contabili o amministrativi, mentre nella fattispecie si discuterebbe di un ordinario processo di esecuzione forzata, per il quale risponderebbe il solo Ministero della giustizia.
Il motivo non ha fondamento.
L'art. 3, comma 3°, della legge n. 89 del 2001 dispone che il ricorso è proposto nei confronti del Ministro della giustizia quando si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministro della difesa quando si tratta di procedimenti del giudice militare, del Ministro delle finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario. Aggiunge poi che "negli altri casi è proposto nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri".
Essendo questo il tenore normativo, la tesi restrittiva delle amministrazioni resistenti (che vorrebbero circoscrivere la legittimazione della Presidenza ai casi di giudizi contabili o amministrativi) non può essere condivisa perché non trova alcuna base nella legge che, se avesse voluto una simile limitazione, l'avrebbe prevista in modo espresso. Invece la disposizione recata dal citato art. 3 va collegata all'ampia formula dell'art. 2, comma 2°, della legge n. 89 del 2001, secondo cui il giudice, nell'accertare la violazione, considera (tra l'altro) il comportamento di ogni altra autorità chiamata a concorrere o a contribuire alla definizione del procedimento. Nel caso in esame sono addotte (anche) violazioni "di sistema", nel significato sopra indicato, in relazione alle quali la legittimazione va riconosciuta alla Presidenza del Consiglio proprio in forza della previsione c.d. "residuale" recata dall'art. 3, 3° comma, della legge n. 89/2001.
Ne segue che anche il secondo motivo del ricorso incidentale deve essere respinto.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale, rigetta il ricorso incidentale, cassa il provvedimento impugnato e rinvia alla Corte di appello di Perugia, in diversa composizione.