sezioni unite civili

Cassazione italiana . SEZIONI UNITE CIVILI - sentenza 26 gennaio 2004, n.1341. Giudizio di equa riparazione. Legge Pinto n. 89/2001.

   

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill. mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Giuseppe       IANNIRUBERTO    Primo Presidente f.f.

Dott. Vittorio       DUVA            Presidente di Sezione

Dott. Giovanni       PAOLINI         Consigliere

Dott. Antonino       ELEFANTE        Consigliere

Dott. Alessandro          CRISCUOLO       Consigliere

Dott. Ernesto        LUPO           Rel. Consigliere

Dott. Luigi Francesco     DI NANNI        Consigliere

Dott. Maria Gabriella     LUCCIOLI        Consigliere

Dott. Michele        LO PIANO        Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

LEPORE ARMANDO, LEPORE ETTORE elettivamente domiciliati in ROMA, VIA R. GRAZIOLI LANTE 76, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA IASONNA, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI ROMANO, giusta delega a margine del ricorso;

-               ricorrenti –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro-tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

-               controricorrente –

avverso il decreto definitivo della Corte d’Appello di ROMA, depositato il 27/12/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/11/03 dal Consigliere Dott. Ernesto LUPO;

uditi gli avvocati Giovanni ROMANO, PELATIELLO, dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. Esposito che ha concluso per l’annullamento con rinvio.

Svolgimento del processo

In un giudizio promosso da Armando ed Ettore Lepore (quest’ultimo quale erede della madre Assunta Mucci) per la corresponsione dell’equa riparazione a titolo di danno non patrimoniale ai sensi della legge 24 marzo 2001 n. 89, quantificata dai ricorrenti in lire 15 milioni, l’adita Corte di appello di Roma, con il decreto depositato il 27 dicembre 2001 – accertata la durata irragionevole del processo presupposto (avente ad oggetto una domanda di rimborso di somme pagate al condominio per giudizi instaurati prima del contratto di acquisto dell’appartamento condominiale) – non ha riconosciuto il chiesto indennizzo per il danno morale, sulla base della considerazione che “la domanda riguardava non aspetti delicati della vita affettiva o di relazione, ma si chiedeva un ristoro esclusivamente patrimoniale che il giudice ha quantificato, in sede di giudizio di primo grado in una somma inferiore a lire 500000. In questa situazione non sono realisticamente quantificabili danni morali derivanti dal ritardo derivante dalla risoluzione di una controversia di così lievitato valore, non essendo immaginabili sofferenze psichiche del ricorrente in assenza di una dimostrazione di uno stato economico tale da dover renderlo sensibile al ritardo nella definizione dell’iter del procedimento”.

Avverso il decreto della Corte d’appello di Roma Armando ed Ettore Lepore hanno proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi, a cui il Ministero della Giustizia ha resistito con controricorso. Il ricorso, assegnato in un primo momento alla prima sezione di questa Corte, a cui i ricorrenti hanno presentato memorie, è stato poi assegnato alle sezioni unite, con provvedimento del Primo Presidente del 18 giugno 2003, che ha accolto l’istanza dei ricorrenti, per la soluzione di questione di massima di particolare importanza. Il Ministero della Giustizia ha presentato memoria alle Sezioni Unite.

 

Motivi della decisione

 

1.I tre motivi del ricorso sono tutti connessi.

Con il primo motivo (violazione e mancata applicazione dell’art. 2 commi 1 e 3, della legge n. 89/2001, nonché degli artt. 2056 e 1226 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 e 5 c.p.c.) i ricorrenti – premesso che la ratio della legge n. 89 del 2001 consiste nell’assicurare all’istante una tutela analoga a quella che egli riceverebbe davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo – fanno presente che nel giudizio si controverte del risarcimento del danno maturato per il ritardo nel processo presupposto a partire dal 16 aprile 1996, giacchè, a seguito di un precedente ricorso alla vecchia Commissione europea dei diritti dell’uomo, era già stata accertata la violazione della norma convenzionale e, al termine del giudizio, il comitato dei ministri del consiglio d’Europa aveva riconosciuto in loro favore la somma di lire 15.000.000 per il ritardo maturato fino a tale data. I ricorrenti si dolgono che la Corte d’appello non abbia preso in considerazione tale precedente pronunzia dei giudici di Strasburgo. Così facendo, la Corte d’appello si è discostata del tutto dalla decisione della Corte europea, disattendendo anche i parametri valutativi a cui invece avrebbe dovuto attenersi. In particolare i ricorrenti sostengono che, una volta accertata la violazione dell’art. 6 par. 1, della CEDU, sotto il profilo del diritto alla ragionevole durata del processo, il giudice adito, versandosi in un’ipotesi di oggettiva responsabilità di carattere internazionale dello Stato, avrebbe dovuto procedere alla liquidazione in via equitativa del danno non patrimoniale, consistente nello stress, nello stato di incertezza e di ansia circa l’esito del giudizio protrattosi per un tempo eccessivamente lungo. La violazione della norma convenzionale genererebbe sempre, come conseguenza immediata e diretta, il danno alla persona, perché il soggetto verrebbe leso nel suo diritto fondamentale a veder definita la  controversia, che lo coinvolge come parte, entro un termine ragionevole. Inoltre, la particolarità della richiesta risarcitoria avrebbe dovuto indurre la Corte d’appello a fare ricorso al meccanismo di cui all’art. 1226 c.c., anche al fine di omologarsi alla giurisprudenza consolidata. Secondo la giurisprudenza di legittimità, infatti, viola quest’ultima disposizione il giudice del merito che non prenda in considerazione una voce di danno sicuramente sussistente, ma di incerta misura, omettendo il ricorso alla valutazione equitativa.

Con il secondo motivo i ricorrenti, deducendo la violazione delle stesse disposizioni di legge indicate in relazione al primo motivo nonché vizi di motivazione, sostengono che il danno non patrimoniale costituisce una conseguenza naturale e diretta della violazione del termine ragionevole, onde esso potrebbe escludersi solo se dai fatti di causa risultasse un interesse della parte al protrarsi nel tempo del giudizio durato eccessivamente. È illogica e carente la motivazione nella parte in cui fa dipendere la possibilità di pervenire alla liquidazione del danno da una valutazione meramente economica, mentre le caratteristiche del richiesto danno (non patrimoniale) afferiscono alla persona umana e ad un diritto della stessa fondamentale ed inviolabile. La Corte d’appello avrebbe dovuto procedere all’interpretazione della legge n. 89/2001 senza distanziarsi dai parametri di indennizzo applicati dalla Corte di Strasburgo. I ricorrenti osservano, ancora, che è erroneo il ricorso, da parte del decreto impugnato, al parametro della posta in gioco, il quale potrebbe essere impiegato, in conformità della giurisprudenza della Corte europea, al fine di riconoscere con maggiore facilità l’esistenza della violazione, non già per escludere la sussistenza del danno.

Con il terzo motivo, denunciando omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., i ricorrenti, nel ribadire di avere chiesto il risarcimento per l’eccessiva durata del processo soltanto per il periodo immediatamente successivo a quello per il quale i giudici di Strasburgo gli avevano già riconosciuto un’equa soddisfazione, lamentano che la Corte d’appello non abbia tenuto conto della decisione presa in sede internazionale, nonostante tale precedente riguardasse proprio la questione sottoposta al suo esame. Ad avviso dei ricorrenti, la convenzione dei diritti dell’uomo (d’ora in poi: CEDU) rappresenta uno standard minimo di tutela, di guisa che il giudice italiano, nell’ambito delle sue funzioni, potrebbe accogliere soltanto soluzioni più favorevoli per la parte istante, ma mai più sfavorevoli.

2.Il presente ricorso pone la questione di massima di quale effetto giuridico debba attribuirsi – nell’applicazione della legge 24 marzo 2001, n. 89, ed in particolare nella identificazione del danno non patrimoniale derivante da violazione del termine ragionevole del processo – alle pronunzie della Corte europea dei diritti dell’uomo, sia considerate in linea generale come orientamenti interpretativi che tale Corte ha elaborato in ordine alle conseguenze di detta violazione, sia con riferimento all’ipotesi specifica in cui la Corte europea abbia avuto già modo di pronunziarsi sul ritardo verificatosi nella decisione di un determinato processo.

Ed infatti, nel caso di specie, la Corte europea ha già valutato il ritardo nella decisione della causa civile instaurata il 26 maggio 1986 dai ricorrenti Lepore per il periodo fino al 16 aprile 1996, ritenendo dovuta ai ricorrenti l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU per il ristoro delle conseguenze non patrimoniali. I consorti Lepore hanno agito davanti alla Corte d’appello di Roma, chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale limitatamente al periodo successivo al 16 aprile 1996, sulla base della legge nazionale n. 89 del 2001, medio tempore approvata.

La Corte d’appello, con il decreto impugnato, ha implicitamente ritenuto irrilevante la precedente decisione della Corte europea intervenuta in ordine al ritardo dello stesso processo presupposto, perché ha preso in esame l’intero periodo dal 4 ottobre 1988 in poi, ritenendo sussistente la violazione del termine ragionevole del processo instaurato dai Lepore, ma negando che costoro abbiano subito, a causa di detta violazione, un danno non patrimoniale, e quindi rigettando la domanda di corresponsione dell’indennizzo previsto dalla legge n. 89/2001.

3.La soluzione della questione di massima posta alle sezioni unite esige la considerazione della lettere e delle finalità della legge n. 89/2001.

Come chiaramente si desume dall’art. 2, comma 1, della detta legge, il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione da essa prevista è costituito dalla “violazione della convenzione per la salvaguardi dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955 n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, par. 1, della convenzione”. La legge n. 89/2001, cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU.

Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (art. 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle.

Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge n. 89/2001 consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico che pertanto finisce con l’essere “conformato” dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della legge n. 89/2001, ai giudici italiani.

Non è necessario, allora, porsi il problema generale dei rapporti tra la CEDU e l’ordinamento interno, su cui si è ampiamente soffermato il procuratore generale in udienza. Qualunque sia l’opinione che si abbia su tale controverso problema, e quindi sulla collocazione della CEDU nell’ambito delle fonti del diritto interno, è certo che l’applicazione diretta nell’ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla legge n. 89/2001 (e cioè dall’art. 6, par. 1, nella parte relativa al “termine ragionevole”), non può discostarsi dall’interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo.

L’opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra l’applicazione che la legge n. 89/2001 riceve nell’ordinamento nazionale e l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge n. 89/2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell’art. 1 della CEDU, secondo cui le “Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione” (in cui è compreso il citato art. 6, che prevede il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole).

Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89/2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relativa alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: “la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne”). Sul detto principio di sussidiarietà si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo. Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la CEDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale. È tale protezione deve essere “effettiva” (art. 13 della CEDU), e cioè tale da porre rimedio alla doglianza, senza necessità che si adisca la Corte di Strasburgo.

Il rimedio interno introdotto dalla legge 89/2001, in precedenza, non esisteva nell’ordinamento italiano, con la conseguenza che i ricorsi contro l’Italia per la violazione dell’art. 6 della CEDU avevano “intasato” (è il termine usato dal relatore Follieri nella seduta del Senato del 28 settembre 2000) il giudice europeo. Rilevava la Corte di Strasburgo, prima della legge 89/2001, che le dette inadempienze dell’Italia “riflettono una situazione che perdura, alla quale non si è ancora rimediato e per la quale i soggetti a giudizio non dispongono di alcuna via di ricorso interna. Tale accumulo di inadempienze è, pertanto, costitutivo di una prassi incompatibile con la convenzione” (quattro sentenze della Corte in data 28 luglio 1999), su ricorsi di Bottazzi, Di Mauro, Ferrari e A. P.).

     La legge 89/2001 costituisce la via di ricorso interno che la “vittima della violazione” (così definita dall’art. 34 della CEDU) dell’art. 6 (sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole) deve adire prima di potersi rivolgere alla corte europea per chiedere la “equa soddisfazione” prevista nell’art. 41 della CEDU, la quale, quando sussista la violazione, viene accordata dalla Corte soltanto se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permetta che in modo incompleto di riparare le conseguenze di tale violazione”. La legge n. 89/2001 ha, pertanto, consentito alla corte europea di dichiarare irricevibili i ricorsi ad essa presentati (anche prima dell’approvazione della stessa legge) e diretti ad ottenere l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU per la lunghezza del processo (sentenza 6 settembre 2001 Brusco c/ Italia).

     Tale meccanismo di attuazione della CEDU e di rispetto del principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte europea di Strasburgo, però, non opera nel caso in cui essa ritenga che le conseguenze dell’accertata violazione della CEDU non siano state riparate dal diritto interno o lo siano state “in modo incompleto”, perché, in siffatte ipotesi, il citato art. 41 prevede l’intervento della Corte europea a tutela della “vittima della violazione”. In tal caso il ricorso individuale alla Corte di Strasburgo ex art. 34 della CEDU è ricevibile (sentenza 27 marzo 2003, Scordino ed aa. c/ Italia) e la Corte provvede a tutelare direttamente il diritto della vittima che essa ha ritenuto non completamente tutelato dal diritto interno.

     Il giudice della completezza o meno della tutela che la vittima ha ottenuto secondo il diritto interno è, ovviamente, la Corte europea, alla quale spetta di fare applicazione dell’art. 41 CEDU per accertare se, in presenza della violazione della norma della CEDU, il diritto interno abbia permesso di riparare in modo completo le conseguenze della violazione stessa.

     La tesi secondo cui, nell’applicare la legge n. 89/2001, il giudice italiano può seguire un’interpretazione non conforme a quella che la corte europea ha dato della norma dell’art. 6 CEDU (al cui violazione costituisce il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla detta legge nazionale), comporta che la vittima della violazione, qualora riceva in sede nazionale una riparazione ritenuta incompleta dalla Corte europea, ottenga da quest’ultimo giudice l’equa soddisfazione prevista dall’art. 41 CEDU. Il che renderebbe inutile il rimedio predisposto dal legislatore italiano con la legge n. 89/2001 e comporterebbe una violazione del principio di sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo.

     Deve, allora, concordarsi con la Corte Europea dei diritti dell’uomo la quale, nella citata decisione sul ricorso Scordino (relativo alla incompletezza della tutela accordata dal giudice italiano in applicazione della legge n. 89/2001), ha affermato che “deriva dal principio di sussidiarietà che le giurisdizioni nazionali devono, per quanto possibile, interpretare ed applicare il diritto nazionale conformemente alla Convenzione”.

     Questo dovere per il giudice italiano, chiamato a dare applicazione alla legge n. 89/2001, di interpretare detta legge in modo conforme alla CEDU per come essa vive nella giurisprudenza della Corte europea, opera “per quanto possibile”, e quindi solo nei limiti in cui detta interpretazione conforme sia resa possibile dal testo della stessa legge n. 89, non potendo certo il giudice violare quest’ultima legge, alla quale egli è pur sempre soggetto (concetto esattamente sottolineato nella memoria del Ministero della Giustizia).

     Ma un’eventuale contrasto tra la legge n. 89/2001 e la CEDU porrebbe una questione di conformità della stessa con la costituzione che, come si è visto, tutela lo stesso bene della ragionevole durata del processo, oltre a garantire i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2). Occorre, allora, accertare se possa darsi alla detta legge un’interpretazione che sia conforme alla CEDU, in applicazione del canone ermeneutico secondo cui va preferita l’interpretazione della legge che la renda conforme alla costituzione.

     4.Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo si desume che il danno non patrimoniale conseguente alla durata non ragionevole del processo, una volta che sia stata provata detta violazione dell’art. 6 della CEDU, viene normalmente liquidato alla vittima della violazione, senza bisogno che la sua sussistenza sia provata, sia pure in via soltanto presuntiva. E ciò a differenza del danno patrimoniale, per cui si richiede invece la prova della sua esistenza.

     Al riguardo possono consultarsi le recenti sentenze della Corte di Strasburgo su ricorsi contro l’Italia, emanate in data 31 luglio 2003 (cause Battistoni, Ferroni Rossi, La Paglia, Tempesti Chiesi, Fezia, Marigliano, De Gennaro, Miscioscia, Gatti), in data 28 marzo 2002 (cause Soave, Contardi, Lattanti e Cascia), in fata 19 febbraio 2002 (cause Piacenti, De Cesaris, Sardo, Donato, Di Pede), in data 12 febbraio 2002 (cause Ventrone, Seccia, E.M., De Rosa, It. R., società Croce Gialla Romana s.a.s.), sentenze tutte che, accertata la violazione del termine ragionevole di durata, hanno liquidato alle vittime il danno non patrimoniale ritenuto sussistente senza bisogno di alcun accertamento al riguardo.

     Siffatto orientamento interpretativo della Corte Europea non significa, però, che il danno non patrimoniale sia insito nella mera esistenza della violazione, sia cioè, come si usa dire, in re ipsa. Ciò comporterebbe che, accertata la violazione, dovrebbe necessariamente conseguirne il risarcimento del danno non patrimoniale, che non potrebbe giammai essere escluso. Ma tale tesi interpretativa si porrebbe in chiaro contrasto proprio con l’art. 41 CEDU, ove si prevede che, accertata la violazione, la Corte europea accorda un’equa soddisfazione alla parte lesa “quando è il caso”, e quindi non in tutti i casi. E, in applicazione di tale disposizione, la Corte di Strasburgo, alcune volte, ha ritenuto sufficiente a riparare il danno morale della vittima il riconoscimento solenne, contenuto nella decisione di merito, che la violazione dedotta nel ricorso sussiste (tra le decisioni recenti v., in relazione però a violazione diverse da quella sulla durata del processo, sentenza 14 novembre 2000, causa Riepan c. Austria; sentenza 10 ottobre 2000, causa Daktaras c. Lituania; sentenza 6 giugno 2000, causa Magee c. Regno Unito; e, nei confronti dell’Italia, sentenza 30 ottobre 2003, sul ricorso Ganci, che ha accertato la violazione del diritto di accesso ad un Tribunale).

     Non è, quindi, accettabile la tesi del cd. danno-evento, e cioè del danno non patrimoniale insito nella violazione della durata ragionevole del processo. Il danno non patrimoniale, anche secondo la CEDU, costituisce una conseguenza della detta violazione, la quale, però, a differenza del danno patrimoniale, si verifica normalmente, e cioè di regola, per effetto della violazione stessa. Ed invero è normale che la anomala lunghezza della pendenza di un processo produca nella parte che vi è coinvolta un patema d’animo, un’ansia, una sofferenza morale che non occorre provare, sia pure attraverso elemento presuntivi. Trattasi di conseguenza non patrimoniale che possono ritenersi presenti secondo l’id quod plerumque accidit, senza bisogno di alcun sostegno probatorio relativo al singolo caso.

     Possono, però, aversi situazioni concrete in cui tali conseguenze normali della pendenza del processo vanno escluse, perché il protrarsi del giudizio risponde ad un interesse della parte o è comunque destinato a produrre conseguenze che la parte percepisce a sé favorevoli. Si pensi, per fare un esempio (che prescinde dal caso oggetto del presente giudizio, ma che è consentito dal fatto che le Sezioni unite sono chiamate a risolvere una questione di massima rilevante anche in altri giudizi), al caso di un locatario che, durante il giudizio, continui a detenere l’immobile locato e quindi a beneficiare delle utilità derivanti dalla detenzione del bene, onde la lunghezza del giudizio comporti per lui effetti favorevoli, anziché negativi. Più in generale, può dirsi che la piena consapevolezza nella parte processuale civile della infondatezza delle proprie istanze o della loro inammissibilità rende inesistente il danno non patrimoniale, perché tale consapevolezza fa venire meno l’ansia ed il malessere correlati all’incertezza della lite, essendo con gli stessi incompatibile (v., in tal senso, Cass. 11 dicembre 2002 n. 17650; 18 settembre 2003 n. 13741).

     In assenza di tali situazioni particolari che si rilevino presenti nel singolo caso concreto, il danno non patrimoniale non può essere negato alla persona che ha visto violato il proprio diritto alla durata ragionevole del processo, ed ha perciò subito l’afflizione causata dall’esorbitante attesa della decisione (a prescindere dall’esito della stessa, e quindi anche se di contenuto sfavorevole alla vittima della violazione).

     5.Il ritenere che il danno non patrimoniale si verifica normalmente per effetto della violazione dell’art. 6 CEDU (sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole) non si pone in contrasto con le disposizioni della legge n. 89/2001, ed in particolare con l’art. 2, che configura il diritto all’equa riparazione.

     La legge nazionale, in coerenza con la sua ratio giustificativa (v., retro, par. 3), non si è voluta discostare dalla CEDU. Particolarmente significativo in tal senso è il disposto del comma 2 dell’art. 2, ove sono indicati i criteri che il giudice italiano è tenuto a considerare al fine di accertare se vi sia stata o meno violazione del termine ragionevole: la complessità del caso, il comportamento delle parti e quello del giudice e delle altre autorità. Sono questi i tre criteri principali elaborati dalla giurisprudenza europea sulla CEDU, che vengono normalmente enunciati nello stesso ordine seguito dalla citata norma della legge italiana.

     Ed ancora più espliciti sono i lavori preparatori della legge n. 89/2001. Nella relazione al disegno di legge del senatore Pinto (atto senato n. 3813 del 16 febbraio 1999) si afferma che il meccanismo riparatorio proposto con l’iniziativa legislativa (e poi recepito dalla legge citata) assicura al ricorrente “una tutela analoga a quella che egli riceverebbe nel quadro della istanza internazionale”, poiché il riferimento diretto all’art. 6 della CEDU consente di trasferire sul piano interno “i limiti di applicabilità della medesima disposizione esistenti sul piano internazionale, limiti che dipendono essenzialmente dallo stato e dall’evoluzione della giurisprudenza degli organi di Strasburgo, specie della Corte europea dei diritti dell’uomo, le cui sentenze dovranno quindi guidare – come del resto anche negli altri aspetti qui rilevanti – il giudice interno nella definizione di tali limiti”.

     Per quanto attiene specificamente alla liquidazione del danno, va tenuto presente che la Camera dei deputati, nella seduta del 6 marzo 2001, respinse un emendamento presentato dagli On.li Pecorella e Saponara, secondo cui “il mancato rispetto del termine ragionevole … da diritto ad un’equa riparazione”. Tale modifica del disegno di legge Pinto avrebbe ricollegato l’indennizzo al semplice accertamento della violazione, recependo la tesi del danno in re ipsa e rendendo automatica la riparazione; ma come si è visto (v., retro, il precedente paragrafo), tale tesi non è conforme all’art. 41 CEDU che non contempla tale automatismo.

     Deve, quindi, ritenersi che non sia in contrasto con la CEDU la norma dell’art. 2 della legge n. 89/2001, la quale ricollega l’indennizzo all’avere “subito un danno patrimoniale o non patrimoniale”, non considerando sufficiente l’accertamento della mera violazione della CEDU.

     La formula della legge nazionale non impedisce, però, di ravvisare una diversità della prova richiesta per la sussistenza dei due tipi di danno, diversità strettamente correlata alle differenti caratteristiche del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale. Mentre l’esistenza del primo, derivando da circostanze esteriori e sensibili, può (e deve) formare oggetto di specifica dimostrazione, la sofferenza di un danno non patrimoniale, per la lungaggine del processo, avendo natura meramente psicologica, non è suscettibile di ricevere un’obiettiva dimostrazione, onde l’interprete deve prendere atto che esso si verifica nella normalità dei casi, secondo l’id quod plerumque accidit. Può, allora, parlarsi, a proposito del danno non patrimoniale derivante dalla violazione dell’art. 6 CEDU (nel profilo considerato dalla legge n. 89/2001), non di danno insito nella violazione (danno in re ipsa), ma di prova (del danno) di regola in re ipsa, nel senso che provata la sussistenza della violazione, ciò comporta, nella normalità dei casi, anche la prova che essa ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno della parte processuale. Ma tale consequenzialità, proprio perché normale e non necessaria o automatica, può trovare, nel singolo caso concreto, una positiva smentita qualora risultino circostanze che, come si è precisato (v., retro, il precedente paragrafo), dimostrino che quelle conseguenze non si sono verificate.

     Siffatta interpretazione, relativa alla prova del danno non patrimoniale richiesto dalla legge n. 89/2001, deve ritenersi consentita dalle disposizioni contenute in detta legge, e va adottata al fine di porla in piena sintonia con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle conseguenze del mancato rispetto del termine ragionevole, evitandosi così i dubbi di contrasto della stessa legge con la Costituzione italiana.

     6.Le considerazioni qui esposte nei paragrafi 3-5 si riferiscono, in generale, alla rilevanza degli orientamenti interpretativi della Corte europea sull’applicazione della legge n. 89/2001 per quanto attiene alla riparazione del danno non patrimoniale.

     Nella presente fattispecie, però, ogni possibilità per il giudice nazionale di escludere il danno (pure avendo accertato la violazione dell’art. 6 della CEDU), deve ritenersi inesistente perché preclusa dalla precedente decisione della Corte europea che, con riferimento allo stesso processo presupposto, ha già accertato che il ritardo ingiustificato nella sua decisione non ha prodotto conseguenze non patrimoniali in danno del ricorrente, che la Corte stessa ha soddisfatto per un periodo limitato. Da tale pronunzia della Corte europea consegue che, una volta accertato dal giudice nazionale il protrarsi della violazione nel periodo successivo a quello considerato dalla detta pronunzia, il ricorrente ha continuato a subire un danno patrimoniale, da indennizzare in applicazione della legge n. 89/2001.

Non può, quindi, affermarsi – come ha fatto la Corte d’appello di Roma – che l’indennizzo non è dovuto per l’esiguità della posta in gioco nel processo presupposto. Tale ragione, oltre ad essere resa non rilevante dal fatto che la Corte europea ha già ritenuto sussistente il danno non patrimoniale per il ritardo nello stesso processo, non è comunque corretta, perché l'entità della posta in giunco nel processo ove si è verificato il mancato rispetto del termine ragionevole non pub mai avere effetto esclusivo del danno non patrimoniale, dato che l'ansia ed il patema d'animo conseguenti alla pendenza. del processo si verificano normalmente anche nei giudizi in cui sia esigua l'entità della posta in gioco, onde tale aspetto potrà avere un effetto riduttivo dell'entità del risarcimento, ma non totalmente esclusivo dello stesso.

7.In conclusione, la decisione impugnata va cassata e la causa va rinviata alla Corte di appello di Roma, che, in diversa composizione, liquiderà al ricorrente il danno non patrimoniale conseguente alla violazione del termine di durata per il solo periodo successivo al 16 aprile 1996, prendendo come punto di riferimento la liquidazione dello stesso tipo di danno effettuata dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, rispetto alla quale peraltro essa potrà differenziarsi, pure se in misura ragionevole (Corte Europea, 27 marzo 2003, omissis c. Italia). Il giudice di rinvio si pronunzierà anche sulle spese del giudizio di cassazione.  

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, anche per le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso a Roma il 27 novembre 2003.

Depositata in Cancelleria il 26 gennaio 2004.n. 1341