caso pretty n2

REGNO UNITO

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)
CASO PRETTY c. REGNO UNITO
SENTENZA del 29 APRILE 2002  Ricorso n° 2346/02
Diniego di autorizzazione all’eutanasia, mediante il suicidio assistito

non-violazione de l’articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo,

non-violazione dell’articolo 3 (divieto dei trattamenti e pene inumani o degradanti),

non-violazione dell’articolo 8 (diritto al rispetto della via privata),

non-violazione dell’articolo 9 (libertà di coscienza),

non-violazione dell’articolo 14 (divieto  di discriminazione).

QUARTA SEZIONE

Sentenza del 29 APRILE 2002 sul ricorso n° 2346/02
presentato da PRETTY contro REGNO UNITO  
(traduzione non ufficiale del comunicato stampa a 
cura dell’avv. Maurizio de Stefano)

 

1.  Principali fatti

Diane Pretty è una cittadina britannica nata nel 1958 e  risiede a Luton. Essa è in procinto di morire per una sclerosi laterale amiotrofica, malattia neurodegenerativa incurabile che conduce ad una paralisi dei muscoli.

La malattia è ad uno stadio avanzato. La ricorrente è paralizzata dal collo ai piedi e le resta ben poco tempo da vivere. Tuttavia, le sue facoltà intellettuali e di decisione non sono per nulla menomate. Considerato che la fase terminale della malattia comporta  sofferenze e perdita di dignità, l’interessata aspira di poter scegliere il momento e le modalità della sua morte al fine di non dover sopportare queste prove.

Il diritto inglese non considera il suicidio come un reato, ma la malattia della ricorrente  le impedisce di commettere questo atto senza aiuto. Ora l’articolo 2 § 1 della legge del 1961 sul suicidio qualifica reato il fatto di aiutare altri a suicidarsi. La Sig.ra  Pretty desidera  potere ottenere l’assistenza di suo marito per porre fine ai suoi giorni ma, il Direttore della Pubblica Accusa Director of Public Prosecutions (DPP), invitato da essa a garantire che il marito non sarà perciò incriminato, ha rifiutato di accogliere l’istanza.

I  ricorsi presentati dalla  ricorrente  contro questa decisione sono stati respinti.

2.  Procedura e composizione della Corte

Il ricorso è stato presentato davanti  la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo il 21 dicembre 2001. Il 22 gennaio 2002, la Corte ha preso la decisione di trattare il caso in via di priorità e di comunicare  con urgenza il ricorso al  governo britannico. Il 19 marzo 2002, la Corte  ha tenuto una pubblica udienza dedicata sia alla ricevibilità che al merito del caso. La ricorrente  e suo marito, Brian Pretty, erano presenti.

La sentenza è stata adottata da una camera di sette giudici composta da :

Matti Pellonpää (Finlandese), presidente,
Nicolas Bratza (Britannico),
Elisabeth Palm (Svedese),
Jerzi Makarczik (Polacco),
Marc Fischbach (Lussemburghese),
Josep Casadevall (Andorrano),
Stanislav Pavlovschi (Moldavo), giudici,

e da Michael O’Boilecancelliere  di sezione.

3.  Riassunto della sentenza

Doglianze

Invocando l’articolo 2 (diritto alla vita) della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, la ricorrente  sosteneva che spetta ad ogni individuo di decidere se egli voglia vivere e che, corollario del  diritto alla vita, è parimenti garantito il diritto di morire. Di conseguenza, lo Stato avrebbe avuto l’obbligo positivo di regolare  il diritto interno al fine di permetterle di esercitare questa  facoltà.

Fondandosi peraltro sull’articolo 3 (divieto  dei trattamenti inumani e degradanti), l’interessata affermava che  lo Stato britannico deve non soltanto astenersi dall’infliggere esso stesso dei trattamenti inumani e degradanti, ma anche adottare delle misure positive per premunire le persone soggette alla sua  giurisdizione contro simili trattamenti. A tal riguardo, la sola misura idonea a proteggere la ricorrente  sarebbe stata un impegno del DPP di non perseguire penalmente il Sig. Pretty se quest’ultimo avesse aiutato sua moglie a suicidarsi.

La ricorrente  allegava inoltre che l’articolo 8 (diritto al rispetto della vita privata) riconosceva esplicitamente il diritto alla autodeterminazione, ed essa vedeva nel rifiuto del DPP  di assumere l’impegno  sollecitato e nell’assenza di una disposizione legale che autorizzasse il suicidio  assistito, una menomazione del suo diritto di esprimere le sue convinzioni, ai sensi dell’articolo 9 (libertà di pensiero). Avvalendosi infine dell’articolo 14 (divieto di discriminazione), essa sosteneva che il divieto  generale che colpiva il suicidio  assistito comporta una discriminazione nei confronti delle persone che non  potevano suicidarsi senza aiuto, poiché gli individui validi potevano legalmente esercitare il diritto di morire.

Decisione della Corte

Ricevibilità

La Corte considera che il ricorso nel suo insieme solleva questioni di diritto sufficientemente serie  cosicché una decisione a tal proposito può essere adottata solo dopo  un esame nel merito delle doglianze. Essa dichiara dunque il ricorso ricevibile.

Merito

Articolo 2

La Corte ricorda che l’articolo 2 protegge il diritto alla vita, senza il quale il godimento di qualunque altro degli altri diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sarebbe illusorio. Esso non copre soltanto l’omicidio volontario, ma parimenti le situazioni in cui è permesso il « ricorso alla forza », potendo un simile  impiego  della forza condurre a dare la morte in maniera involontaria. La Corte ha peraltro giudicato che la prima frase dell’articolo 2 § 1 costringe  lo Stato non soltanto ad astenersi dal dare la morte in maniera intenzionale ed illegale, ma anche ad  adottare le misure necessarie alla protezione della vita privata delle persone soggette alla sua giurisdizione. Questa obbligazione può parimenti implicare, in certe circostanze ben definite, una obbligazione positiva per le autorità  di adottare preventivamente delle misure di ordine pratico per proteggere l’individuo la cui vita è minacciata dai comportamenti criminali altrui.

Nella sua giurisprudenza in materia, la Corte ha costantemente posto l’accento sull’obbligazione per lo Stato di proteggere la vita. In queste condizioni, essa non è convinta che il « diritto alla vita » garantito dall’articolo 2 possa interpretarsi come comportante un aspetto negativo. L’articolo 2 non potrebbe, senza distorsione di linguaggio, essere interpretato come conferente un diritto diametralmente opposto, cioè un diritto a morire ; non si potrebbe per di più creare un diritto alla autodeterminazione nel senso che darebbe ad ogni individuo il diritto di  scegliere la morte piuttosto  che la vita.

In conseguenza, la Corte stima che non è  possibile far  derivare  dall’articolo 2 della Convenzione un diritto a morire, che questo sia per mano di un terzo o con l’assistenza di una autorità pubblica. Pertanto, non vi è stata violazione di questa disposizione.

Articolo 3

La Corte rileva che nella fattispecie ognuno riconosce che il governo convenuto non ha esso stesso inflitto il minimo cattivo trattamento alla ricorrente . Quest’ultima nemmeno  si  lamenta di non aver ricevuto delle cure adeguate da parte delle autorità sanitarie dello Stato. Essa sostiene piuttosto che il rifiuto del DPP  di assumersi l’impegno di non perseguire penalmente suo marito se quest’ultimo l’avesse aiutata a suicidarsi e la proibizione del suicidio  assistito sancita dal diritto penale  si concretano in un trattamento inumano e degradante di cui lo Stato è responsabile. Questa doglianza nasconde  tuttavia una interpretazione nuova ed allargata della nozione di trattamento. Se la Corte deve adottare uno  passo leggero e dinamico per interpretare la Convenzione, deve anche vigilare che ogni interpretazione che essa ne fornisce sia in linea con gli obiettivi fondamentali perseguiti dal trattato e preservi la coerenza che quest’ultimo deve avere in tanto che sistema di protezione dei diritti dell’Uomo. L’articolo 3 deve essere interpretato in armonia con l’articolo 2. Quest’ultimo consacra all’inizio e prima di tutto una proibizione del ricorso alla forza come di ogni altro comportamento suscettibile di provocare il decesso d’un essere umano, e non conferisce per nulla all’individuo un diritto ad esigere dallo Stato che questi permetta o faciliti il suo decesso.

La Corte non può che provare simpatia per la paura della ricorrente  di dover affrontare una morte penosa se non le si offre la possibilità di mettere fine ai suoi giorni. Tuttavia, ammettere l’obbligazione positiva che secondo la ricorrente  grava sullo Stato condurrebbe ad obbligare lo Stato a  garantire gli  atti che mirano ad interrompere la vita, obbligazione che non può essere desunta dall’articolo 3 della Convenzione. La Corte conclude pertanto che questa clausola non fa pesare sullo Stato convenuto alcuna obbligazione positiva a tal riguardo e che essa non è stata dunque violata.

Articolo 8

La ricorrente è impedita dalla legge di esercitare la  sua scelta di evitare ciò che, ai suoi occhi, costituirà una fine di vita indegna e penosa. La Corte non può escludere che ciò rappresenti una menomazione ai diritti dell’interessata al rispetto della sua vita privata, ai sensi dell’articolo 8 § 1.

La Corte ricorda che per essere compatibile con il paragrafo 2 dell’articolo 8 una ingerenza nell’esercizio di un diritto garantito da quest’ultimo deve essere « previsto dalla legge », ispirato da uno o dagli scopi legittimi in base a questo paragrafo e « necessario, in una società democratica », per il perseguimento di questo o di questi scopi.

La sola questione che scaturisce dalle argomentazioni delle parti è quella  della necessità dell’ingerenza denunciata, ed il  dibattimento si è incentrato essenzialmente sulla proporzionalità di questa. La ricorrente  si lamentava in particolare sulla natura  generale del divieto del suicidio  assistito.

La Corte considera, come la Camera dei lords, che gli Stati hanno il diritto di controllare, attraverso l’applicazione del diritto penale generale, le attività pregiudizievoli alla vita ed alla sicurezza altrui. La disposizione legale di cui si contende nella specie, segnatamente l’articolo 2 della legge del 1961, è stata  concepita per preservare la vita  proteggendo le persone deboli e vulnerabili – specialmente quelle che non  sono in grado di prendere delle decisioni in coscienza di causa – contro gli atti che mirano a mettere fine alla vita o ad aiutare a mettere  fine alla vita.

La Corte reputa che la natura generale del divieto del suicidio  assistito non è sproporzionata. Il Governo sottolinea che una certa elasticità è resa possibile in casi particolari : dapprima, le azioni penali non potrebbero essere intentate che con l’accordo del DPP ; poi,  sarebbe prevista solo una pena massima, e questo avrebbe  permesso al giudice d’infliggere delle pene meno severe là dove egli lo reputa appropriato. Non sembrerebbe arbitrario che il diritto rifletta l’importanza del diritto alla vita vietando il suicidio  assistito anche prevedendo un regime d’applicazione e d’apprezzamento da parte della giustizia che permette di prendere in conto in ogni caso concreto tanto l’interesse pubblico ad avviare l’azione penale che le esigenze giuste ed adeguate  della dissuasione.

Avuto riguardo alle circostanze della fattispecie, la Corte non ravvisa nulla di sproporzionato nel rifiuto del DPP di prendere in anticipo l’impegno di esonerare da ogni azione penale il marito della ricorrente . Degli argomenti forti fondati  sullo stato di diritto potrebbero essere opposti ad ogni pretesa dell’esecutivo di sottrarre degli individui o delle categorie di individui all’applicazione della legge. Comunque sia, vista la gravità dell’atto per cui una immunità era  richiesta, non si può giudicare arbitraria o irragionevole la decisione presa dal DPP  nella specie di rifiutare di assumere l’impegno sollecitato.

La Corte conclude che l’ingerenza incriminata può passare per giustificata come « necessaria, in una società democratica », alla protezione dei diritti altrui. Pertanto, non vi è stata violazione dell’articolo 8.

Articolo 9

La Corte osserva che non tutte le opinioni  o convinzioni entrano nel campo di applicazione dell’articolo 9 § 1. Le doglianze dell’interessata non si rapportano ad una forma di manifestazione di una religione o di una convinzione in base al culto, l’insegnamento, le pratiche o l’espletamento dei riti, ai sensi della seconda frase del paragrafo 1 dell’articolo 9. Il termine « pratiche » impiegato nell’articolo 9 § 1 non ricopre ogni atto motivato o influenzato da una religione o una convinzione. Per quanto che le argomentazioni della ricorrente  riflettono la sua  adesione al principio dell’autonomia personale, esse non sono che la riformulazione della doglianza formulata sul terreno dell’articolo 8. La Corte conclude dunque che l’articolo 9 non è stato violato.

Articolo 14

Ai fini dell’articolo 14, una differenza di trattamento tra  persone poste in situazioni analoghe o comparabili è discriminatoria se essa non si fonda su di una giustificazione obiettiva e ragionevole, cioè se essa non persegue uno scopo legittimo o se non vi è un rapporto ragionevole di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo mirato. Si può parimenti  avere discriminazione quando uno Stato, senza giustificazione obiettiva e ragionevole, non tratta differentemente delle persone che si trovano in situazioni sostanzialmente differenti.

Vi è per la Corte una giustificazione obiettiva e ragionevole nell’assenza di distinzione giuridica tra le persone che sono fisicamente capaci di  suicidarsi senza aiuto  e quelle che non lo sono. La frontiera tra le due categorie è spesso molto stretta, e tentare di iscrivere nella legge una eccezione per le persone giudicate di non essere in grado di suicidarsi da sole scuoterebbe  seriamente la protezione della vita che la legge del 1961 ha inteso consacrare ed aumenterebbe in maniera significativa il rischio di abusi. Pertanto, non vi è stata violazione dell’articolo 14 nella fattispecie.