sentenza 16 maggio 2002

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)

 CASO  NUVOLI contro ITALIA

SENTENZA del 16 maggio 2002  Ricorso n°  41424/98

  

 Violazione  del termine ragionevole di durata di un processo penale (articolo 6 § 1 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo) a carico del ricorrente : cinque anni, dieci mesi e ventiquattro giorni per un grado di giudizio.

Violazione  dell’art. 13 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (diniego di accesso ad un tribunale) per la mancanza in diritto interno (prima dell’entrata in vigore della legge Pinto N.89/2001) di un ricorso che avesse permesso al ricorrente di ottenere il riconoscimento del suo diritto di vedere la sua causa “esaminata  entro un termine ragionevole”, ai sensi dell’articolo 6 §1 della Convenzione.

 Lo Stato italiano deve versare al ricorrente EURO 9.000,00 (novemila) per danno morale. 

Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Strasburgo)

 

La sentenza così motiva

( traduzione non ufficiale a cura  del Dott. Corrado Quinto)

PRIMA SEZIONE

Sentenza del 16 maggio  2002

sul ricorso n°  41424/98
presentato da 
NUVOLI
contro Italia

 

Nel caso Nuvoli contro Italia,

La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (prima sezione), riunitasi in una camera composta da:

C.L. ROZAKIS; presidente,   G. BONELLO,  P. LORENZEN, S. BOTOURACHAROVA, A. KOVLER,    V. ZAGREBELSKY, E. STEINER, giudici, e E. FRIBERGH, cancelliere di sezione,

Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 30 aprile 2002,

Rende la seguente sentenza, adottata in questa data:

 

PROCEDURA

 

     1. All’origine del caso vi è un ricorso (n°41424/98) proposto contro la Repubblica italiana, con il quale un cittadino di questo Stato, signor Giovanni Nuvoli (“il ricorrente”), aveva adito la Commissione Europea dei Diritti dell’Uomo (“la Commissione”) il 26 novembre 1997 in virtù dell’art.25, vecchio testo, della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali (“la Convenzione”).

     2. Il Governo italiano (“il Governo”) è rappresentato dal suo agente, signor U.Leanza, e dal suo co-agente, signor V.Esposito.

     3. Il ricorrente affermava che la durata di una procedura penale diretta contro di lui non rispondeva all’esigenza del “termine ragionevole” (art. 6 §1 Convenzione) e che la mancanza, nel diritto italiano, di un ricorso efficace per contestare la durata eccessiva di una procedura violava l’art 13 della Convenzione.

     4. Il ricorso è stato trasmesso alla Corte il 1° novembre 1998, data di entrata in vigore del Protocollo n°11 della Convenzione (art. 5 §2 del Protocollo n°11).

     5. Il ricorso è stato assegnato alla seconda sezione della Corte (art. 52 §1 del regolamento). In seno a questa, la camera incaricata di esaminare il caso  (art. 27§1 della Convenzione) è stata costituita conformemente all’articolo 26 §1 del regolamento.

     6. Con una decisione del 6 aprile 2000, la Corte ha dichiarato il ricorso ricevibile.

     7. Il 1° novembre 2001 la Corte ha modificato la composizione delle sue sezioni (art. 25 §1 del regolamento). Il presente ricorso è stato attribuito alla prima sezione così modificata (art. 52 §1).

 

IN FATTO

I.  LE CIRCOSTANZE DELLA FATTISPECIE

 

     8. Il ricorrente è un cittadino italiano, nato nel 1956 e residente a Pozzomaggiore (Sassari).

     9. Il 17 febbraio 1994, il ricorrente si recò presso una banca di Sassari per riscuotere un titolo bancario per un importo di 5 milioni di dollari degli Stati Uniti d’America. Si trattava, in particolare, di un draft emesso dalla People’s bank of Zanzibar in favore di un certo signor G., che aveva avuto un rapporto d’affari con la banca in questione. In particolare, il signor G. aveva ricevuto il draft a titolo di finanziamento per alcune operazioni commerciali. Tuttavia il 26 giugno 1993 laPeople’s bank of Zanzibar aveva invitato il signor G. a sospendere la negoziazione del titolo bancario. Quest’ultimo poteva essere negoziato solo tramite banca, e a condizione dell’invio, da parte della People’s bank of Zanzibar, di un telegramma di autorizzazione, il “KTT”.

     10. La Guardia di Finanza, con l’autorizzazione della Procura di Sassari, intervenne presso la banca di Sassari e procedette al sequestro del titolo bancario.

     11. Il ricorrente, a più riprese, chiese alla Procura di Sassari sia di revocare il sequestro sia di riscuotere il titolo bancario prima che quest’ultimo scadesse. Queste richieste non ebbero seguito.

     12. Il 30 maggio 1994 la polizia procedette alla perquisizione del domicilio e dell’autovettura del ricorrente, come pure dei locali della società Tecnobit, di cui questi era amministratore. Il 12 dicembre 1994 il ricorrente fu arrestato. Era sospettato di aver creato, insieme ad altre ventisette persone, una associazione a delinquere. Fu rimesso in libertà il 9 gennaio 1995.

     13. Il 18 novembre 1995, la Procura chiese il rinvio a giudizio del ricorrente. Il 7 febbraio ed il 13 maggio 1996 il ricorrente propose un’istanza al fine di poter essere giudicato con “giudizio immediato”, previsto dall’art.453 del codice di procedura penale. Con un’ordinanza del 14 maggio 1996, il giudice delle indagini preliminari accolse l’istanza del ricorrente, dopo aver separato la procedura concernente il ricorrente da quella relativa ai ventisette correi, fissò la data dell’udienza al 15 novembre 1996 davanti al Tribunale di Sassari. Tale udienza fu rinviata d’ufficio prima al 9 aprile, poi al 2 ottobre 1997 ed infine al 2 ottobre 1998, data in cui i due processi furono nuovamente riuniti.

     14. Nel frattempo, il 16 dicembre 1996, il Tribunale di Sassari aveva ordinato una perizia sul  titolo bancario oggetto del giudizio. Il 20 gennaio 1997, il rapporto peritale fu depositato presso la cancelleria del Tribunale. Secondo il perito, il titolo bancario era valido e poteva essere riscosso con riserva della prescrizione.

     15. Tra il 2 ottobre 1998 ed il 1° ottobre 1999 si tennero undici udienze. Con sentenza del 18 ottobre 1999, la cui motivazione fu depositata in cancelleria il 10 gennaio 2000, il Tribunale di Sassari assolse il ricorrente “perché il fatto non sussiste”. Il Tribunale rilevò che secondo le informazioni di cui disponeva, il titolo bancario che il ricorrente aveva cercato di riscuotere aveva perduto ogni valore economico a partire dal 25 giugno 1993, data in cui la banca, dopo averlo emesso, aveva proibito la sua negoziazione. Peraltro, la People’s bank of Zanzibar non aveva inviato il telegramma di autorizzazione detto KTT, indispensabile per poter riscuotere il titolo in questione. Il Tribunale respinse ugualmente la richiesta del ricorrente mirante ad ottenere la restituzione del succitato titolo, osservando, in particolare, che il problema di sapere chi ne fosse il proprietario avrebbe dovuto essere risolto in via pregiudiziale dal giudice civile.

 

II. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE

 

     16. Il 24 marzo 2001, il Parlamento ha adottato la Legge n°89 del 2001 (qui di seguito indicata come la “Legge Pinto”), che ha introdotto nel sistema giuridico italiano il diritto ad un’equa riparazione per tutti coloro che abbiano subito un pregiudizio patrimoniale o non patrimoniale per la violazione del “termine ragionevole” previsto dall’art 6 §1 della Convenzione. La domanda di equa riparazione deve essere presentata, sotto pena di decadenza, entro il termine di sei mesi a partire dalla data della decisione che  conclude la procedura interna incriminata (art.4 Legge Pinto).

Una norma transitoria (art.6) permette una proroga di questo termine per coloro che abbiano presentato un ricorso a Strasburgo, ma solo se, alla data di entrata in vigore della legge n°89 del 2001, questo ricorso non fosse stato ancora dichiarato ricevibile dalla Corte.

 

IN DIRITTO

 

I. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 6 §1 DELLA CONVENZIONE

 

     17. Il ricorrente lamenta la durata della procedura penale diretta contro di lui. Adduce la violazione dell’art. 6 §1 della Convenzione che, nelle sue parti pertinenti, è così formulato:

Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata (…) entro un termine ragionevole, da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti (…)”

     18. Il Governo si oppone alla tesi del ricorrente e sostiene che la durata della procedura si giustifica con il numero delle persone accusate e con la complessità della causa.

 

A.     Periodo da prendere in considerazione

     19. La Corte ricorda che in materia penale, il “termine ragionevole” dell’articolo 6 §1 ha inizio nell’istante in cui una persona si trova ad essere “accusata”. Si può trattare di una data anteriore al rinvio a giudizio, in particolare quella dell’arresto, dell’imputazione e dell’inizio delle indagini preliminari.

L’<<accusa>>, ai sensi dell’art. 6 §1, può quindi definirsi “come la notifica ufficiale, proveniente dall’autorità competente, della contestazione di aver compiuto un’infrazione penale”, idea che corrisponde anche alla nozione di “ripercussione importante sulla posizione” del sospettato (vedi sentenza Reinhardt e Slimane-Kāid c. Francia del 31 marzo 1998, Recueil des arrêts et décisions 1998-II, p.660, §93).

La Corte constata che il ricorrente ha subito delle ripercussioni importanti sulla sua posizione al momento del sequestro dell’assegno che voleva riscuotere presso la banca di Sassari (paragrafo 9 sopra citato).Conviene dunque fissare l’inizio del periodo da prendere in considerazione al 17 febbraio 1994.

     20. La procedura è terminata il 10 gennaio 2000, data del deposito in cancelleria della sentenza del Tribunale di Sassari. Dunque è durata cinque anni, dieci mesi e ventiquattro giorni per un grado di giudizio.

 

B.     Carattere ragionevole della durata della procedura

     21. Il carattere ragionevole della procedura si valuta secondo le circostanze della causa ed avuto riguardo ai criteri consolidati dalla giurisprudenza della Corte, in particolare la complessità della causa, il comportamento del ricorrente e quello delle autorità competenti (vedi, tra le altre, le sentenze Pelissier e Sassi c.  Francia [G.C.] n°25444/94, §67, CEDH 1999-II, e Philis c. Grecia (n°2) del 27 giugno 1997, Recueil1997-IV, p.1083, §35).

     22. La Corte osserva di primo acchito che la causa presentava una certa complessità.

     23. Rileva, poi, che la Procura della Repubblica ha chiesto il rinvio a giudizio del ricorrente il 18 novembre 1995, cioè più di un anno e cinque mesi dopo la perquisizione del domicilio dell’imputato (30 maggio 1994). Inoltre, la prima udienza dibattimentale presso il Tribunale di Sassari, fissata inizialmente il 15 novembre 1996, è stata rinviata d’ufficio a tre riprese e ha avuto luogo solo il 2 ottobre 1998. Ne consegue che le autorità italiane possono essere ritenute responsabili di un ritardo globale di circa tre anni e quattro mesi, per il quale nessuna spiegazione pertinente è stata addotta dal Governo.

     24. Tenuto conto del comportamento delle autorità competenti, la Corte ritiene che non si potrebbe considerare “ragionevole” una durata globale di più di cinque anni e dieci mesi per un solo grado di giudizio.

     25. Pertanto, c’è stata violazione dell’articolo 6 §1 della Convenzione.

 

II. SULLA PRETESA VIOLAZIONE DELL’ART. 13 DELLA CONVENZIONE

 

     26. Il ricorrente lamenta la mancanza, nel diritto italiano, di un rimedio efficace per contestare la durata eccessiva delle procedure giudiziarie. Invoca l’articolo 13 della Convenzione, così formulato:

Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella presente Convenzione siano stati violati, ha diritto ad un ricorso effettivo davanti ad un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali”.

     27. Il Governo rileva che il sistema giuridico italiano permette di introdurre una domanda di anticipazione della data dell’udienza davanti al Presidente del Tribunale. Tale rimedio sarebbe normalmente efficace, anche se nel caso di specie non ha dato risultati soddisfacenti.

     28. Il Governo ritiene che la decisione del 6 aprile 2000 sulla ricevibilità del ricorso doveva essere considerata come concernente esclusivamente la questione del rispetto del termine ragionevole, e non la violazione di cui all'art.13 della Convenzione.

Il Governo rileva in particolare che il testo della decisione in questione menzionava solo la lamentela di cui all’art.6 §1 della Convenzione, e che nessun riferimento fosse fatto alla doglianza sollevata dal ricorrente sotto l’angolo dell’art.13. A tal riguardo il Governo osserva che una decisione sulla ricevibilità per via interpretativa non sarebbe “ammissibile poiché non prevista né dalla Convenzione, né dal Protocollo n°11, né dal Regolamento”.   

     29. La Corte sottolinea preliminarmente che la sua competenza “si estende a tutte le questioni concernenti l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione (…) che siano sottoposte ad essa alle condizioni previste dagli articoli 33, 34 e 47” e che “In caso di contestazione sulla competenza della Corte, è la Corte che decide” (art. 32 §1 e 2 della Convenzione.)

     30. Ricorda poi che, sovrana della qualificazione giuridica dei fatti di causa, essa non si ritiene vincolata a quella loro attribuita dai ricorrenti o dai governi. Tuttavia, la pienezza della sua giurisdizione opera esclusivamente nei limiti del “caso”, che sono fissati dalla decisione di ricevibilità del ricorso. All’interno del quadro così tracciato, la Corte può trattare ogni questione di fatto o di diritto che insorga durante  il giudizio instaurato davanti ad essa (sentenza Guerra e altri / Italia del 19 febbraio 1998,Raccolta 1998-I, p. 223, §§43-44).

     31. La Corte nota che al tempo della comunicazione del ricorso il Governo è stato invitato a presentare delle osservazioni sulla doglianza circa la durata della procedura e sulla violazione addotta dell’art.13 della Convenzione. Il ricorso è stato in seguito dichiarato ricevibile nel suo insieme e alcuna doglianza è stata rigettata.

     32. In queste condizioni, la Corte ritiene che la decisione sulla ricevibilità copra ugualmente la lamentata violazione dell'art. 13 della Convenzione. Si può pertanto esaminare la fondatezza di tale doglianza. 

     33. Secondo la giurisprudenza della Corte, l’articolo 13 garantisce l’esistenza nel diritto interno di un ricorso che permetta di far valere i diritti e le libertà della Convenzione, così come in essa consacrati. Questa disposizione ha come conseguenza quella di esigere, per le doglianze che possono ritenersi  “difendibili” ai sensi della Convenzione o dei Protocolli, un ricorso interno che abiliti il giudice nazionale competente a conoscere il contenuto della doglianza e ad offrire la riparazione appropriata, anche se gli Stati contraenti godono di un certo margine di apprezzamento  quanto alla modalità di conformarsi agli obblighi posti da questa disposizione. La portata dell’obbligo derivante dall’articolo 13 varia in funzione della natura della doglianza che il ricorrente fonda sulla Convenzione. Tuttavia il ricorsorichiesto deve essere “effettivo”  nella pratica come in diritto, particolarmente nel senso in cui il suo esercizio non deve essere ostacolato in maniera ingiustificata dagli atti o omissioni delle autorità dello Stato  convenuto (sentenze Aydin c. Turchia del 25 settembre 1997, Recueil 1997-VI, p.1895, §103, e Kaya c. Turchia del 19 febbraio 1998, Recueil 1998-I, pp. 329-330, §106; quanto al carattere “difendibile” della doglianza fondata sulla Convenzione, vedere le sentenze Boyle e Rice  c. Regno Unito del 27 aprile 1998, serie A n°131, p.23, §52, e Powell e Rayner  c. Regno Unito del 21 febbraio 1990, serie A n°172, p.14, §31).

     34. Nella fattispecie, il ricorrente aveva presentato una doglianza difendibile sotto l’aspetto dell’ articolo 6 della Convenzione. Egli aveva, dunque, diritto di sottoporre la sua doglianza davanti un giudice nazionale capace di offrirgli una riparazione appropriata. 

     35. A tal punto, la Corte rileva che la via del ricorso indicata dal Governo, vale a dire la possibilità di sollecitare l’anticipazione della data d’udienza, si riduce ad una semplice domanda al Presidente del Tribunale, che godeva in materia di un largo margine di discrezionalità e non è tenuto a motivare un’eventuale decisione di rigetto. Non è previsto alcun appello contro questa decisione. Ne consegue che questo ricorso non soddisfa le esigenze dell’articolo 13 della Convenzione (vederemutatis mutandis, la sentenza Horvat c. Croazia, n°51585/99, §§ 46-48, non pubblicata).

     36. Peraltro, la Corte ricorda che nella sentenza Kudla (vedere Kudla c. Polonia[GC], n°30210/96, §§ 132-160, CEDH 2000-XI), essa ha concluso per la violazione dell’articolo 13 della Convenzione per la mancanza, in diritto polacco, di un rimedio efficace contro la durata di una procedura e che nella sentenza Selva (vedere Selva c.Italia, n°51672/99, §§ 13-15, non pubblicata), il Governo italiano non aveva contestato la mancanza di un simile ricorso in diritto italiano prima dell’entrata in vigore della legge n°89 del 2001. Ora, la Corte rileva che questo testo non è applicabile nella fattispecie in oggetto poiché il ricorso è stata dichiarata ricevibile prima dell’entrata in vigore della legge Pinto (vedi sopra, paragrafo 16).

     37. Pertanto quindi, la Corte ritiene che nella fattispecie vi è stata violazione dell’articolo 13 della Convenzione per la mancanza in diritto interno di un ricorso che avesse permesso al ricorrente di ottenere il riconoscimento del suo diritto di vedere la sua causa “esaminata entro un termine ragionevole”, ai sensi dell’articolo 6 §1 della Convenzione.

 

III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

 

     38. A norma dell’articolo 41 della Convenzione,

 “Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli, e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa”

A Danno

     39. Il ricorrente sottolinea che la procedura penale iniziata contro di lui ha avuto ripercussioni rilevanti sulla sua vita privata e familiare e sulla sua situazione economica. Ricorda che alla conclusione del suo processo, è stato stabilito che l’assegno in contestazione fosse regolare. Tuttavia, a causa del lungo lasso di tempo trascorso dalla sua emissione, è stato impossibile ottenere il pagamento di tale titolo bancario. Di conseguenza, il ricorrente chiede 5 milioni di dollari degli Stati Uniti d’America  per danno materiale, somma alla quale si dovranno aggiungere gli interessi legali a partire dal 17 febbraio 1994. Quanto alla riparazione degli altri danni che avrebbe subito, il ricorrente si rimette alla saggezza della Corte, sottolineando la gravità del suo caso.

  40. Il Governo ritiene che il ricorrente non abbia debitamente provato l’esistenza di un nesso di causalità fra la durata della procedura e il danno materiale che pretende di aver subito. Peraltro, il pregiudizio scaturente dall’intentata azione giudiziaria contro il ricorrente sarebbe sussistito anche nel caso in cui la procedura fosse terminata rapidamente. Il Governo considera quindi che la semplice constatazione della violazione della Convenzione fornirebbe da sola una equa soddisfazione sufficiente ai sensi dell’articolo 41.

    41. La Corte non vede un nesso di causalità diretta tra la durata della procedura e il mancato pagamento dell’assegno che il ricorrente aveva cercato di incassare. A tale riguardo, essa osserva che il Tribunale di Sassari ha ritenuto che il titolo bancario in oggetto aveva perduto ogni valore economico a partire dal 25 giugno 1993, e dunque prima dell’inizio della procedura intentata contro il ricorrente. Ad ogni modo, la questione circa la proprietà del suddetto titolo dovrà essere risolta dal giudice civile. Si devono, pertanto, rigettare le pretese del ricorrente a titolo di pregiudizio patrimoniale.

    42. La Corte ritiene, invece, che il ricorrente abbia subito un torto morale certo. Considerando le circostanze della causa e statuendo  in via equitativa come previsto dall'art.41 della Convenzione, essa (la Corte n.d.t.) decide di accordargli la somma di €.9.000,00(EUR).

 

B COSTI E SPESE LEGALI

     43. Con una lettera giunta alla cancelleria della Corte il 25 ottobre 2001, il ricorrente sollecita il rimborso delle spese processuali davanti alle giurisdizioni interne, che ammonterebbero a €.15.453,37.

     44. La Corte fa notare subito che questa richiesta di rimborso è stata introdotta dopo la scadenza dei termini che erano stati assegnati al ricorrente per la presentazione delle sue domande di equa soddisfazione. Ad ogni modo, la Corte ritiene che il ricorrente non abbia dimostrato un nesso causale tra la violazione della Convenzione e le spese affrontate davanti alle giurisdizioni interne. Quindi rigetta le pretese del ricorrente a questo titolo.

C Interessi moratori

     45. Secondo le informazioni di cui la Corte dispone, il tasso d’interesse legale applicabile in Italia alla data di adozione della presente sentenza è del 3% annuo.

 

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

 

1.      Dichiara che c’è stata violazione dell’articolo 6 §1 della Convenzione;

2.      Dichiara che c’è stata violazione dell’articolo 13 della Convenzione;

3.      Dichiara

a) che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a partire dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 42 §2 della Convenzione, €.9000,00 (novemila euro) per danno morale,

b) che tale importo sarà maggiorato dell’interesse semplice del 3% annuo a partire dalla scadenza del suddetto termine e fino al versamento;

 

4.      Rigetta per il surplus la domanda di equa soddisfazione.

 

Redatta in francese, comunicata poi per iscritto il 16 maggio 2002 in applicazione dell’articolo 77 §§2 e 3 del regolamento.

Erik FRIBERGH (Cancelliere)

 Christos ROZAKIS (Presidente)